
Se e quando deciderete di leggere la mia raccolta Anima e Carbonio, vi capiterà di imbattervi in un racconto intitolato Tenue luce infrarossa: sono affezionato a quel racconto per diversi motivi, e sono decisamente grato di averlo scritto. Non è esagerato dire che senza Tenue luce infrarossa l’intera raccolta non avrebbe visto la luce, quandomeno non nella forma che ha oggi né probabilmente con la casa editrice con cui ho iniziato a collaborare.
Originariamente intitolato Api, lucciole e ratti, il racconto ha ricevuto nell’estate 2022 il primo premio al Premio Arthè, organizzato ogni anno nell’ambito del festival dell’editoria indipendente Liberi sulla Carta. Non si trattò di un caso di spam letterario, nel senso che non inviai un racconto a caso: la storia fu scritta espressamente per il concorso. La sera della premiazione – dopo aver scoperto il piazzamento del mio racconto in cima al podio, sui cui altri gradini c’erano due bravissimi autori come il poliedrico Beniamino Rosa e l’ottimo Giulio Natali – i ragazzi del comitato che organizza il festival mi confidarono due cose: la prima era che un loro punto d’orgoglio era il modo in cui il vincitore del concorso solitamente finisse col pubblicare un libro nei dodici mesi seguenti; la seconda, che il mio era non solo il primo racconto di (virgolette d’obbligo) “fantascienza” ad aggiudicarsi il premio, ma anche il primo racconto di genere in assoluto a superare la pre-selezione da parte della giuria.
Seppi allora di aver scritto qualcosa di buono: il mio intento, quello cioè di dedicarmi a un genere tradizionalmente un po’ sottovalutato in Italia provando a competere con chi scriveva cose “serie” (ragionando su come i generi letterari siano in realtà più o meno dei costrutti mentali sorpassati) era raggiunto. Fu proprio leggendo quel racconto che la persona che si sarebbe poi occupata dell’editing della raccolta, David Ballaminut, si convinse che potesse essere una buona idea farmi lavorare a una raccolta, la quale per motivi di coerenza interna sarebbe stata interamente dedicata alla (di nuovo, virgolette d’obbligo) “fantascienza”.
Sul motivo di queste continue virgolette magari parleremo un’altra volta, per ora vorrei spendere due parole sul racconto, in modo da condividere con chi l’abbia già letto qualche curiosità e magari dando a quanti non l’abbiano fatto motivo di dare una chance a quella storia. Il tema del premio letterario Arthè 2022, per il quale come dicevo il racconto fu scritto, era “Qualcosa rimane”. Il titolo originale della mia storia, che era appunto Api, lucciole e ratti e che è stato poi cambiato in fase di editing ragionando insieme a David, racchiudeva in un certo senso la mia interpretazione della traccia: in un mondo futuristico e decadente, nel quale la sovrappopolazione ha portato a sfruttare al massimo gli spazi urbani eliminando il superfluo e creando per le classi meno abbienti nuclei abitativi simili ad alveari, il tecnico di un’azienda che offre un servizio molto particolare affronta una giornata lavorativa come tante. Nel farlo si trova a riflettere su diverse cose che si sono in una certa misura perse per strada: alcune cose sono rimaste ma sono ormai riservate a pochi (api, preservate in pochissimi alveari intensivi), altre sono in apparenza scomparse del tutto (lucciole, introvabili in una natura quasi interamente soppiantata dal cemento e dai materiali sintetici), altre ancora rimangono ma sono trasformate (ratti, che infestano le città alveare e sono spesso mutati dall’inquinamento).
Le lucciole, in particolare, rivestono un significato particolare nella storia: non credo negli spoiler, ritengo che una storia possa essere fruita anche conoscendone la trama, tuttavia non anticiperò il finale di questo racconto. Quello che posso dire è però che il punto di partenza della storia sono state proprio le lucciole, o meglio un’immagine (forse terribile) della mia infanzia: un tempo le lucciole abbondavano da queste parti, e capitava a volte che la gente a volte le catturasse nei campi o nei giardini, rinchiudendole poi in barattoli di vetro con il tappo forato e creando così una sorta di macabre, effimere lanterne estive. Altra cosa che si è persa, quell’usanza, ma forse è meglio così.
Ci sarebbe altro da dire sul racconto, naturalmente, il quale pesca da diversi generi (che – ribadisco – a mio avviso sono solo costrutti mentali e non categorie nette): il nome del protagonista ad esempio, che si riallaccia all’occidentalismo tipico del cyberpunk e della fantascienza anni ’80, non è casuale; le città alveare sono un concetto che appare anche nell’ambientazione grimdark per eccellenza, Warhammer 40.000; il fatto che la cittadinanza sia divisa in livelli ai quali corrisponde un credit score crea una sottile continuity con Una lotteria, altro racconto presente nella raccolta, a sua volta vincitore l’anno scorso del primo premio a un concorso letterario.
Una storia non è mai solo una storia, in fondo.