Kaen Chronicles – Episodio 10: Crescita

“I don’t wanna grow up.” – Tom Waits

Desidero riprendere un concetto espresso nello scorso post, che ritengo doveroso di una precisazione: la crescita è una buona cosa, quantomeno in senso aziendale. Un’azienda più grande e più “robusta” ha più mezzi, può dare lavoro a più persone, può generare meccanismi positivi per il tessuto sociale, per lo Stato, eccetera. Chiaro, c’è un pericolo intrinseco nella crescita che è quello dell’eccessiva burocratizzazione, e chiunque abbia lavorato in una Multinazionale sa di cosa parlo: “Vuoi comprare una pinzatrice nuova per l’ufficio? Compila questo modulo e firmalo digitalmente. Poi lo mandiamo allo Stapler Executive Manager su a Detroit e lui alla prossima riunione del Senior Decision Makers Lodge sottopone la richiesta al Vice President per la Globalization: se lui accetta qualcuno all’ufficio Optimization di Stoccolma valuterà dove acquistare lo strumento. Entro un paio di mesi dovremmo sapere se… ah, te la sei comprata da solo? Beh, se vuoi un rimborso dobbiamo chiedere al Primarca delle Human Resources che…”, e così via. Si rischia in sostanza di diventare tipo la Pubblica Amministrazione, cosa che – l’avrete capito – detto da me è un insulto mortale.

Ma no, io non parlo di questo. Parlo di un rischio più subdolo, di un peccato che oserei definire originale: privilegiare la crescita “on paper” rispetto alla profittabilità della propria impresa. Ne parla in maniera diffusa il buon Sahil Lavingia nel suo “The Minimalist Entrepreneur“, testo abbastanza interessante che racconta la carriera imprenditoriale del fondatore di GumRoad (servizio su cui tra parentesi siamo sbarcati da poco): l’imprenditore minimalista di cui parla Lavingia, tra le altre cose, si preoccupa prima di fare profitto fin dal primo giorno, e solo dopo (se mai lo farà, cosa che idealmente non succederà) di cose tipo far contenti gli investitori pompando le performance a scapito della salute aziendale. Questo vuol dire non indebitarsi? No di certo: vuol dire costruire un business in cui non si va in perdita al solo scopo di aumentare la base dei clienti in maniera artificiale, un business in cui da ogni singola transazione risulti (anche se di poco) un numero di segno positivo sul conto economico.

L’approccio opposto è naturalmente valido, ci mancherebbe: mettere in piedi business che vanno in perdita per i primi N anni è una cosa normalissima nel mondo delle startup, e anche un’aziendina chiamata Amazon (che potreste aver sentito nominare se vivete sulla Terra) ha avuto bilanci in rosso per anni a partire dalla sua fondazione nel 1994, raggiungendo il break even appena nel 2002. Un’anomalia, certo, ma dimostra che anche quella strada è percorribile. Non però in Italia, non nel 2023, e soprattutto non da me: ecco perché dovendo scegliere tra rimanere in positivo e aumentare la nicchia di clienti non ho dubbi su quale sia per me (e ribadisco: per me) la scelta più sensata.

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