
“…and I’ll look down and whisper ‘No.'” – Walter Kovacs
Avete presente quando siete seduti a un tavolo del vostro pub preferito, quello che ultimamente sta andando alla grande e che tutti frequentano perché fanno ottimi panini, hanno una birra artigianale eccezionale, si paga poco e hanno pure i camerieri simpatici? Sostituite “ristorante” a “pub”, se volete, oppure immaginate un galletto allo spiedo al posto del panino, o dei robot al posto dei camerieri, l’importante è che riusciate a visualizzare una situazione del genere: siete in un locale che vi piace e che piace a tante altre persone, magari aspettavate da tutta la settimana di andarci e già sapevate cosa avreste mangiato prima ancora di entrare. Vi sedete, ordinate, aspettate. E aspettate. E aspettate. I camerieri, simpaticissimi, sono piuttosto indaffarati, vanno avanti e indietro dalla cucina con piatti e vassoi e bicchieri, ogni tanto sbagliano un ordine e devono tornare di corsa in cucina, un bicchiere si rompe. I camerieri fanno i salti mortali, la gente mastica e beve e si diverte, e voi aspettate. E aspettate ancora, finché qualcuno al tavolo dice “Però, un po’ lenti questa sera”, anche se non sono davvero lenti, hanno semplicemente troppo lavoro da smaltire. Non potendo moltiplicare per mitosi il personale possono fare due cose soltanto: dilatare i tempi, oppure cacciare qualche cliente. Ma nessuno vuole cacciare i clienti, giusto? Perché quelli poi non tornano, e anzi corrono a casa a scrivere una pessima recensione su Tripadvisor.
Si tratta di un problema che naturalmente non affligge solo bar e ristoranti, anzi: in linea di principio è qualcosa che può capitare a tutti quanti, sebbene in base alla categoria merceologica o al tipo di servizio erogato la cosa possa essere più o meno grave, più o meno mitigabile, più o meno evidente. È il problema della saturazione delle risorse, e può assumere varie forme: magari ho materie prime per produrre solo cento pezzi ma me ne ordinano duecento, e il mio fornitore di materie prime è in vacanza e mi tocca posticipare la consegna; oppure ho due soli tecnici qualificati da spedire on site per sistemare un’apparecchiatura e di colpo tre clienti lontanissimi tra loro lamentano un guasto bloccante da risolvere; o semplicemente ho un certo quantitativo di ore che posso dedicare nell’arco della settimana a un progetto, ma sono stato troppo ottimista e ho accettato di seguirne un secondo, un terzo, e così via, e mi ritrovo a lavorare la notte invece di farmi venire l’insonnia a forza di giocare a Crusader Kings per nove ore di fila come fanno le persone normali.
Capita anche fuori dall’ambito lavorativo, chiaro: quanti di noi si sono trovati con troppe pagine da studiare e hanno dovuto rinunciare ad andare a un allenamento di curling? Pochi, perché qui nessuno gioca a curling, ma ci siamo capiti. Solo che qui stiamo parlando di fare impresa, dunque il tradeoff non è tra divertirsi o studiare, bensì tra porre determinati paletti alla propria attività o lasciarsi travolgere dagli eventi. In sostanza, il punto è questo: bisogna imparare a dire di no.
Si tratta della parola più difficile da pronunciare, perché se partiamo dall’assunto che il lavoro che facciamo ci piaccia (e se non ci piacesse saremmo stati davvero stupidi ad aprire un’azienda per farlo, quindi l’assunto è più che legittimo) e se assumiamo che ogni nuovo cliente rappresenti un’ulteriore fonte di introiti, allora la tentazione è quella di dire sempre e solo di sì: puoi costruirmi un sito? Certo! Mi scrivi una app? Come no! Ti va di partecipare a questo bando di concorso? Senz’altro!
E intanto il tempo passa, i progetti si accumulano, e un bel giorno ti trovi nei panni dei camerieri dell’esempio di prima: ti tocca fare il giocoliere, con la consapevolezza crescente di come la famosa triade Qualità/Tempo/Costo rappresenti una coperta molto più corta del previsto. Se vuoi fare le cose in poco tempo e contenendo i costi, ti tocca compromettere la qualità. Ed ecco che ti sei giocato uno di quei clienti che troppo frettolosamente hai accettato.
Che fare, allora? Limitare la propria crescita? Non necessariamente: il punto, a mio avviso, è comprendere l’enorme differenza che passa tra la crescita fine a se stessa, quella sulla carta che spesso è la droga degli investitori istituzionali, e la crescita che va a braccetto con la reale metrica che va considerata nel costruirsi un parco clienti: la profittabilità.
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