Kaen Chronicles – Episodio 6: Il Lasciapassare A38

“Whatever happened to “Hey, I have some apples, would you like to buy them?” “Yes, thank you!” That’s as complicated as it should be to open a business in this country.” – Ron Swanson

Facendo una rapida checklist degli elementi che finora abbiamo detto essere fondamentali per iniziare anche solo a considerare l’idea di avviare un’impresa, dobbiamo sicuramente considerare una certa attitudine, una o più idee da portare avanti (possibilmente buone o quantomeno non cattive), un quantitativo di denaro variabile ma sicuramente non nullo, una certa dose di propensione al rischio.

Nel mio caso, ricollegandomi a quanto detto nello scorso episodio, anche una customer base da cui partire, fattore che concorre a ridurre appunto la rischiosità dell’impresa: un contratto firmato vale più di cento pacche sulla spalla, a meno che le pacche sulla spalla arrivino da Warren Buffett, e senza scendere nei dettagli io prima ancora di cominciare ne avevo già firmati due con due diversi clienti, tali da assicurarmi ossigeno per cominciare la mia attività.

Bellissimo, no? C’è un’idea, ci sono le competenze, ci sono gli strumenti, ci sono i fondi, ci sono addirittura già i clienti: cosa potrà mai andare storto, a questo punto? Eheheh.

È proprio qui che ci mette lo zampino quello che dovrebbe essere il più solido partner di ogni imprenditore della penisola e che invece – grazie a un sapiente mix di inadeguatezza delle persone, arretratezza delle infrastrutture, farraginosità delle pratiche e a voler essere maliziosi anche un filo di sadismo – ne è il più acerrimo rivale: lo Stato Italiano.

Si potrebbero fare molte affermazioni forti a questo punto, pescando a piene mani dai detti di personalità più o meno grandi del presente e del passato: Murray Rothbard scrisse ad esempio negli anni ’80 che “Taxation is theft“, mentre qualche anno dopo Supergiovane gridò “Governo bastardo”, e così via. Oppure si potrebbero citare le statistiche, parlare di economia sommersa, rilevare le bizzarre anomalie del Paese in cui un superbonus ha dato il via a una bolla immobiliare e quello che l’ha varato ha affermato che il buco nelle casse dello Stato che ne deriva verrà pagato dallo Stato stesso e non dalle famiglie (come se il Ministero dell’Economia prendesse i soldi da forzieri trovati scavando in giardino e non dalle imposte), ma non lo faremo. Non ci spingeremo a quegli estremi per evitare un duplice rischio: quello di finire a parlare nuovamente dei famigerati massimi sistemi (cosa cui non sono abilitato e per la quale non sono preparato) e quello di dare adito a discussioni di stampo politico.

E poi non serve, basta limitarsi a un singolo macrotema che diventa un problema per l’imprenditore ben prima di quello del cuneo fiscale: quello della burocrazia. È quest’ultima infatti a rappresentare l’autentico serpente nella culla: se trovare il primo cliente può essere difficile, riuscire a emettere la prima fattura è uno sforzo cognitivo titanico, un’impresa resa inutilmente complicata dall’arrugginita Macchina di Rube Goldberg che decenni di passaggi ridondanti aggiunti a processi già intricati hanno contribuito a rendere un incubo di inefficienza.

Anche senza scomodare il problema di scegliere la forma sociale da adottare, per fare impresa in Italia occorre confrontarsi con notai, Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS (o equivalenti) Camera di Commercio, banche: insomma, gli interlocutori sono molteplici, l’asimmetria informativa elevata, le indicazioni oscure, il tempo sprecato è gargantuesco. Quel che è peggio, gli attori non si parlano tra loro, quantomeno non in maniera efficiente, col risultato che la medesima pratica viene elaborata istantaneamente dall’Agenzia delle Entrate (chi ci chiede i soldi) ma fino a tre settimane dopo dalla Camera di Commercio (chi ci deve dare il via libera per lavorare); l’INAIL ci manda un F24 da pagare subito ma la banca non ci permette di aprire un conto finché non abbiamo una visura che attesti che siamo attivi; occorre una PEC; occorre una firma digitale ma forse anche uno SPID e qualcuno sostiene serva anche un timbro che poi non userai mai. E così via.

Per fortuna viviamo nel terzo millennio, giusto? Internet ci verrà in aiuto con le informazioni necessarie, giusto? No: in Rete si trova tutto e il contrario di tutto, non solo andando a cercare su siti a caso ma anche su quelli delle medesime istituzioni che (giustamente, in un certo senso) non ammettono ignoranza da parte nostra e sono lì pronte con la cartella esattoriale da lanciarci in mezzo alle scapole quando meno ce l’aspettiamo. E tra un modulo da firmare, una PEC da archiviare, un PIN da memorizzare e una tassa da pagare, il tempo passa e tu vedi l’acqua alzarsi, perché va bene l’ottimismo ma ti sei licenziato da un mese e mezzo e hai i clienti che insistono per pagare, e vai tu a spiegare che le cose non sono semplici come da loro: qui siamo in Italia, il Paese più bello del mondo, e finché un tizio a caso in un qualche ufficio non ha finito la sua pausa caffè di sei ore (d’altronde è mercoledì: è tornato al lavoro dopo due giorni di finta malattia e si appresta a scioperare per tre settimane, diamogli un attimo di tregua), il tasto “Ok” sullo schermo che serve a far sì che tu possa lavorare non può essere premuto.

Insomma, l’unica cosa sensata da fare a mio avviso è quella che ho fatto io: trovatevi un buon commercialista che si smazzi tutte queste rotture di palle, chiamatelo ogni giorno e non mollate. La situazione è grave ma non seria.

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