
“I’ve never been skydiving, but I have zoomed-in on Google Earth really fast.” – Unknown
Dicevamo nello scorso episodio di come un’idea da cui partire sia conditio sine qua non per avviare un’attività. “E ‘sti cazzi?”, avranno sicuramente commentato i più ruspanti tra i miei lettori, ai quali risponderò “Non vi obbliga nessuno a leggere, eh? Se siete tanto bravi fatevi il vostro blog e non rompete le balle a me”.
Ora che abbiamo messo in riga i maleducati, riprendiamo da dove eravamo rimasti: non è la prima volta in cui provo (con determinazione altalenante) a fare qualcosa di mio. Credo che questo sia stato salutare, perché ogni tentativo pregresso, pur essendo per vari motivi naufragato in un modo o nell’altro prima di diventare un vero lavoro, ha contribuito alla mia educazione e alla mia consapevolezza. Quando si comincia a bazzicare il mondo delle start-up si cominciano a sentire affermazioni apparentemente controintuitive, come quella secondo la quale avere qualche tentativo fallimentare alle spalle sarebbe fondamentale per il successo. Questo, senza scomodare il famigerato “fail fast” (che in realtà ha un significato ben preciso che va a toccare temi tipo le procedure concorsuali), è a mio avviso vero in almeno due modi: non solo ogni esperienza come detto sopra concorre al bagaglio culturale ed esperienziale di un aspirante imprenditore, ma i fallimenti più o meno tosti servono anche a scremare chi non ha (metaforicamente parlando) le palle. Se ti scoraggi troppo in fretta forse non sei pronto, insomma, a meno di avere le spalle coperte da qualcuno (da chi? Anche di questo parleremo più avanti).
Dicevo insomma la scorsa volta di avere almeno tre false partenze alle spalle: vogliamo vedere quali, magari cercando di capire con senso critico cosa mi abbiano insegnato?
Il primo esempio risale a un’epoca che sembra il Pleistocene: il 2010. Ero all’Università, mi stavo specializzando in Ingegneria Clinica, e assieme a due compagni di corso cui tutt’ora voglio un gran bene ipotizzai una cosa che adesso suona banale ma che all’epoca non esisteva: un motore di ricerca per cliniche ospedaliere e ambulatoriali (private e non) che consentisse ai pazienti di scegliere la struttura di cura più adatta. Insomma, turismo sanitario in piena regola, in un momento in cui era ancora l’eccezione e la gente era un po’ disorientata. Avevamo in mente un sacco di funzionalità, tra cui la possibilità di prenotare alloggi nei pressi degli ospedali per i famigliari dei degenti e una scala di valutazione multiparametrica, e immaginavamo flussi di cassa come se piovessero. Però non solo eravamo tre studenti (quasi) privi di esperienza lavorativa, eravamo anche insicuri: scoprimmo che qualcuno stava facendo una cosa simile (anche se in apparenza peggiore) e invece di provare a insistere lasciammo perdere. Cosa ho imparato da questa esperienza? Banalmente: esisteranno sempre dei competitor, e magari saranno anche arrivati prima di te, ma questo non implica che non devi provarci. Altrimenti ti ritrovi tredici anni dopo a pensare a come sarebbero andate le cose se non avessi mollato.
Il secondo esempio è un clamoroso caso di idea giusta al momento giusto che non sfruttammo: era il 2017, insieme a un amico Ingegnere ideai e costruii un kit per rendere qualsiasi seggiolino per auto uno strumento in grado di allertare i genitori nel caso in cui lasciassero un bambino incustodito sul sedile. Presentammo il concept a una call for ideas di Arduino, azienda produttrice di schede di sviluppo e prototipazione elettronica: non vincemmo ma ci piazzammo piuttosto bene (se non sbaglio arrivammo dietro a un signore cieco che sviluppò qualcosa di molto utile per gli ipovedenti, non ricordo i dettagli), decidemmo di cedere l’idea alla comunità open source e passammo oltre. Mi fu proposto qualche mese dopo, durante il mio percorso MBA, di riprendere il progetto e provare a farne una start-up, ma l’amico con cui avevo lavorato al progetto non era interessato e allora decisi di lasciar perdere. Neanche a farlo apposta, uscì poco dopo una legge che rese obbligatorio l’uso di seggiolini per auto con capacità del tutto simili a quelle del nostro prototipo, che in più era low cost essendo pensato per venire incontro a quei genitori giovani e squattrinati che non potevano permettersi una Tesla o magari nemmeno un seggiolino di ultima generazione. Cosa mi ha regalato questa esperienza? Cose tipo i giri in auto alle due di notte per testare le funzionalità GPS su una scheda di sviluppo da dieci euro, l’arte di limare le spese al centesimo per non buttare via troppi soldi in un prototipo, e soprattutto la consapevolezza che a volte anche l’assenza di competitor può essere un problema: se non lo fa nessun altro ti sembra quasi che non ne valga la pena, e magari va a finire che lasci perdere proprio quando sei davanti al famoso Oceano Blu.
Dicevamo che durante l’MBA mi fu proposto di riprendere l’idea di cui sopra: perché? Perché il momento culminante di quel percorso (la tesi, se vogliamo) consisteva nel produrre un business plan da presentare a potenziali investitori, per la precisione a un incubatore aziendale. Furono scelti alcuni progetti tra quelli proposti dai componenti della nostra classe e ci dividemmo in team di lavoro. Io mi unii a quello di una cara amica, e insieme ad altre due persone lavorammo a un progetto che aveva come target i ragazzi autistici (progetto di cui non darò dettagli, perché non sono mica scemo). Fu un lavoro appassionante ma purtroppo mi toccò imparare un’altra lezione: provare a fare impresa con delle persone implica sempre un grado di rischio, e anche con le migliori intenzioni e con un gruppo in apparenza adatto a portare a termine la missione a volte ci si deve fermare. Finimmo infatti per avere idee discordanti sul modo di proseguire l’impresa e il progetto non decollò, non senza qualche malumore. Ho saputo recentemente che quell’idea non è appassita, perché le buone idee non muoiono mai, ma quella volta (ormai sono passati quasi cinque anni) non riuscimmo a coltivarla. Il team di lavoro è una bestia strana, una paradossale chimera che più è bizzarra (leggasi: più sono diversi i punti di vista e differenziate le competenze) più lontano dovrebbe andare, ma allo stesso tempo è anche più traballante, e se non si sta attenti si rischia di inciampare prima ancora di prendere velocità.
Ne avrei altri di esempi meno significativi: la volta in cui iniziai a scrivere in solitaria un toolkit per sviluppare software di Controllo Qualità, le varie volte in cui mi dedicai a un blog (tipo questo), i due romanzi nel cassetto, i molteplici racconti pubblicati e non, un intero librogame (scritto da zero a partire dal regolamento), l’associazione culturale per la divulgazione della cultura tecnico-scientifica, un concept album scritto per tirare su un amico giù di morale, e così via. E poi c’è naturalmente PAPWA, progetto nel settore del riuso di materiale plastico cui partecipo come socio. Come dire, non è certo la mia prima esperienza questa.
È obbligatorio provare, fallire, riprovare, diversificare e sperimentare? No di certo, né è necessario studiare se vogliamo dirla tutta: c’è chi un giorno si sveglia e fonda un’azienda destinata a diventare una multinazionale senza aver mai neanche letto un conto economico. Però quelli sono casi rari, non a caso se ne parla in termini entusiastici. Per gli altri, per la gente comune, tutte queste cose sono utili a porre delle solide basi, a scartare idee che da principio sembrano buone ma si rivelano vicoli ciechi, ad apprendere cosette tipo il lavoro di squadra, la gestione della complessità, la digestione delle molte tonnellate di quella che in mancanza di termini migliori non esito a chiamare “pupù” (scusate la parola forte), che inevitabilmente toccherà a un certo punto deglutire. Perché toccherà, questo è chiaro.
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