Kaen Chronicles – Episodio 1: La Maledizione del Preludio Infinito

What year is this?” – Special Agent Dale Cooper

Il tempo è una cosa strana: un attimo prima scavi buche nella sabbia e un attimo dopo hai i capelli bianchi. E non solo se sei un anziano con l’Alzheimer che fugge su una spiaggia: succede a tutti. Il tempo fugge, il tempo vola, il tempo se ne frega e va avanti. O come diceva Jovanotti quando l’unico ecosistema che devastava durante i tour era quello delle proprie ascelle, “comunque vadano le cose Lui passa”. Già.

Nel mio caso di tempo non ne è passato nemmeno troppo, considerando l’aspettativa di vita odierna: sono arrivato su questo pianeta il 25 dicembre 1984, al momento in cui scrivo ho compiuto da poco 38 anni. Non sono più un ragazzino, insomma, ma non mi ritengo nemmeno del tutto adulto: i miei genitori alla mia età avevano tre figli, io ho due gatti. Mio nonno probabilmente a 38 anni aveva scalato l’Everest, perché questa cosa che le vecchie generazioni erano più precoci è ricorsiva, ma non saprei, non ho fatto in tempo a conoscerlo. So che una volta ha pestato un prete, ma magari di questo parliamo un’altra volta. Il prete se l’era comunque andata a cercare.

Dicevamo, ho 38 anni. Che altro ho? Una casa, alcune chitarre che sono ferme nella custodia da un pezzo, moltissimi libri: tutte testimonianze appunto del tempo passato. Tutte cose che in 38 anni si sono accumulate contribuendo – e qui le anime belle che odiano il consumismo storceranno il naso – a fare di me ciò che sono: i miei oggetti e io siamo in simbiosi. Non avrei una chitarra in casa se non fossi stato per un po’ un chitarrista, non sarei stato per un po’ un chitarrista se non avessi avuto una chitarra. Ok, c’è l’air guitar, ma vabbè, ci siamo capiti.

Gli oggetti però sono solo un elemento dell’equazione, giusto? La vita di una persona è definita solo in minima parte da ciò che ha e in maniera molto più significativa da ciò che fa, da ciò che è, da ciò che sa. Insomma, dalle Immobilizzazioni Immateriali sull’immaginario Stato Patrimoniale della nostra esistenza. Io a riguardo non posso lamentarmi: ho studiato una cosa che mi appassionava, ho avuto la fortuna di avere molti amici in gamba, il mio lavoro mi ha portato a girare il mondo.

Ma intanto il tempo passava: ho fatto lo sviluppatore software, e intanto il tempo passava; ho scritto tanti racconti rifiutando ogni proposta di pubblicazione a pagamento (l’editoria a pagamento fa schifo, boicottatela sempre), e intanto il tempo passava; ho realizzato il sogno d’infanzia di lavorare sui/ai/coi robot, e intanto il tempo passava; ho preso un MBA, e intanto il tempo passava; ho avuto promozioni, premi, diplomi, e il tempo continuava a passare. Una volta mi hanno dato pure un assegno gigante, tipo quelli di Mai dire Banzai: ad applaudirmi in mezzo al pubblico c’era il tempo, che aveva l’aria di chi non vede l’ora sia finita la cerimonia perché ha un aereo da prendere.

In tutto questo io continuavo a ripetermi “Un giorno voglio fare qualcosa di mio, un giorno voglio essere indipendente”: il tempo annuiva con accondiscendenza e continuava a passare, perché per andare in aeroporto c’era traffico e poi ai controlli di sicurezza nei weekend è sempre un casino, e insomma non è che poteva stare lì ad aspettare me e i miei sogni, giusto?

Ero finito vittima della Maledizione del Preludio Infinito: continuavo ad accumulare esperienze utili a fare un giorno qualcosa di cui essere fiero, qualcosa di personale, qualcosa con un grado di rischio maggiore (e dunque, si spera, un maggiore grado di soddisfazione). E non mi decidevo mai: c’era sempre una scusa valida, e a dire la verità erano scuse sensate. A dirla tutta erano argomentazioni razionali: il rischio sarebbe troppo, servono capitali, servono idee, serve un certo grado di fortuna se vogliamo essere sinceri. Non c’è assolutamente niente di male a fare il tipo di vita che facevo io: non è obbligatorio emanciparsi dal lavoro da dipendenti, non è per forza di cose sbagliato rimanere nella famigerata comfort zone: se si chiama comfort zone e non (che so?) hellish shithole ci sarà un motivo, giusto?

Però alcune persone hanno il desiderio di prendersi il famigerato rischio d’impresa, e io ero tra quelle persone fin dai tempi in cui non sapevo leggere: quando ero alla scuola materna, alle persone che mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo “L’inventore”. Io ho sempre voluto creare qualcosa di mio, e dopo quasi quarant’anni ho deciso di provarci.

Cosa comporta questa decisone? Ne parleremo nelle prossime puntate.


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