“Penso al cyberbullismo e a come abbia devastato la vita di tante persone fino a spingerle al suicidio. O a come l’automazione ci toglierà il lavoro“.
Questi, sebbene parafrasati da me, assieme ad altri luoghi meno comuni e più feroci sono i punti elencatimi da una persona su LinkedIn per parlarmi di esempi di tecnologia incontrollata e dei danni che causa. Il tutto nell’ambito di una discussione apparentemente innocua, nata commentando una notizia altrettanto innocua, quella cioè di un ristorante ceco in cui la birra è servita agli astanti su un trenino che viaggia sul bancone. Niente di particolare, cose così ne ho viste ad esempio in Giappone: una curiosità che non fa male a nessuno e non rivoluzionerà di certo il settore della ristorazione. Eppure c’è chi riesce a esserne inquietato: c’è chi di fronte a questo trenino che viaggia a tutta birra (pun totally intended) si turba fino a collegarlo a quella che viene definita “innovazione che devasta la nostra società“, e fino a portare a esempio di tale devastazione inarrestabile i due punti con cui si è aperto questo post. E io, che da sempre lotto per non perdere la convinzione che i Transformers siano una profezia più che un cartone animato, non posso non rimanerci un po’ male.
Sentimentalismo a parte, accantonando le reazioni istintive, da appassionato di introspezione quale sono mi sono posto una domanda che ritengo abbastanza interessante: cosa rivela del sentore comune una presa di posizione tanto disfattista di fronte a un’espressione tecnologica tutto sommato banale? Parlo di sentore comune perché non è un segreto che in Italia di questi tempi siano in molti, troppi a soffrire di una sorta di allergia alla scienza e alla tecnologia, complice anche una sorta di scarto di mentalità rispetto a chi invece crede nel progresso. A mio avviso le considerazioni della mia interlocutrice si prestano a un livello di lettura più profondo di quanto non sembri, un livello che rivela due potenziali problemi nel nostro rapporto con l’innovazione (rapporto che come abbiamo detto non sempre è facilissimo).
Il primo problema, quello rappresentato qui dal fantomatico e onnipresente lemma “cyberbullismo“, è la nostra tendenza umanissima e scellerata a eludere le nostre responsabilità: il cyberbullismo non è altro che la declinazione in chiave moderna di qualcosa che è sempre esistito e sempre esisterà, ovvero la tendenza da parte di giovani menti deboli a riversare le proprie frustrazioni su quanti sono deboli invece nel fisico o nello spirito, tendenza spesso coadiuvata dal famigerato effetto branco. In breve: metti assieme due o più giovani deficienti e troveranno qualcuno più debole di loro da tormentare, e questo accade fin dalla notte dei tempi. Lo chiamano cyber per pura convenzione giornalistica, il fatto che avvenga sfruttando strumenti IT è incidentale: la Rete qui è tanto colpevole quanto poteva esserlo un petardo negli anni ’80 o una fionda negli anni ’50. Il problema sta nella mano che scrive quel commento carico d’odio, che lancia quel petardo, che tende quell’elastico, o a voler risalire ancor di più verso la fonte il problema sta nelle persone. Anche se togli Internet a un cyberbullo otterrai sempre un cyberbullo, perché è la persona a scegliere l’uso che fa della tecnologia a propria disposizione. E chi è responsabile dell’idiozia dei figli, se non i genitori? Troppo comodo scaricare le colpe della propria scarsa capacità educativa e Zuckerberg o chi per lui: la tecnologia in questo caso come in altri è usata come alibi per giustificare le storture del comportamento umano. La tecnologia ci assolve, ci solleva dall’accettare che i comportamenti scorretti sono tipici della nostra gloriosa specie. Qualcosa che sarebbe troppo spaventoso: ci obbligherebbe a esaminare le nostre colpe anziché additare un capro espiatorio.
Il secondo problema sta tutto nel terrore irrazionale dimostrato da molte persone che recentemente si lamentano di come la tecnologia ci toglierà il lavoro. Evitando accuratamente considerazioni politiche, specie in piena campagna elettorale (by the way, guardate qui se ancora non l’avete fatto), evitando considerazioni politiche dicevo, vorrei allargare un po’ questo concetto pur rimanendo sul vago: si tratta in senso più ampio della paura di vedere la propria posizione lavorativa sottratta da forza lavoro a basso costo. Al netto di situazioni in cui effettivamente qualcuno fa leva su un vantaggio competitivo illegittimo, abbiamo davvero una così scarsa autostima da ritenere che il nostro lavoro valga talmente poco da renderci sostituibili dall’oggi al domani senza ripercussioni? Se sì, dal momento che l’innovazione (come altri fenomeni tipicamente umani) non si può realisticamente fermare, le soluzioni sono due: o ci arrendiamo al terrore e aspettiamo di essere spazzati via dalla corrente, oppure ci rimbocchiamo le maniche per migliorare quanto offriamo al mercato del lavoro, e cerchiamo di dimostrare di poter apportare un valore aggiunto alla nostra azienda, allo Stato, alla Terra. Il lavoro non si distrugge, semplicemente si trasforma: ci saranno più robot? Vorrà dire che serviranno meno operai e più tecnici specializzati nella loro manutenzione, più programmatori (molti di più, e bravi), più persone in grado di dare un contributo unico e originale. Purtroppo però, e qui c’è il punto di quello che definisco secondo problema, l’Umanità è pigra, abituata alla routine, allo status quo: è troppo difficile mettersi in gioco e cambiare le proprie competenze, molto più semplice costruirsi un bel castello di sabbia, sedercisi accanto e tentare di difenderlo fino all’ultimo dalle onde. La marea però segue la Luna, quella stessa Luna che tanti potrebbero osservare se non si limitassero a guardarsi l’un l’altro le dita: la marea sta salendo, e non la fermeremo urlandole contro e illudendoci che serva a qualcosa.
Nel frattempo non troppo vicino a noi (ma nemmeno troppo lontano) c’è chi manda automobili verso Marte: a chi vogliamo essere accomunati noi, a quelli spaventati da un trenino o a quelli che progettano i razzi spaziali?
penso anche io che il cyberbullismo sia semplicemente l’evoluzione di un modus operandi adolescenziale sempre esistito, il culmine lo si raggiungeva sotto le armi, quando la leva era obbligatoria, si chiamava “nonnismo” ma non cambiava la sostanza, anche se, onor del vero, era un passaggio ciclico che trasformava, inevitabilmente, le reclute vittime in nonni carnefici.
Ho un rapporto altalenante con la tecnologia, l’aver ridotto la mano d’opera è una realtà inconfutabile ma ha anche creato nuove figure professionali, in realtà mi domando come occuperanno il tempo le future generazioni quando tutto o quasi sarà gestito da intelligenze artificiali, automobili e aerei senza guidatori/piloti ( qui a Torino la metro non ha macchinista né personale di bordo), elettrodomestici interattivi, ecc. ecc (elenco lungo). Mi domando anche quanto potrà essere “meraviglioso” dover solo ed esclusivamente imparare ad attivare app et similia.
La tecnologia è una grande conquista fin quando aiuta a migliorare la qualità della vita, quando si trasforma in condizionante dipendenza diventa deleteria, non è un belvedere imbattersi continuamente per strada, nei ristoranti, addirittura al cinema e teatro, in individui totalmente decontestualizzati immersi in chi sa quali irrinunciabili e improcrastinabili conversazioni. A me fanno tanta pena ma forse perché non sono un nativo digitale. Non penso nemmeno che il pedissequo accesso alle informazioni aiuti culturalmente, tutt’altro, pare si stia diffondendo a macchia d’olio l’analfabetismo funzionale.
Esistono effetti collaterali discutibili, a molti individui viene concesso o imposto di svolgere parte (magari tutte) delle mansioni da casa collegandosi con i server di riferimento, conosco una persona in simile situazione, parlo di un dirigente bancario. Prima, con il tipico orario d’ufficio e la presenza obbligatoria, riusciva a “staccare”, adesso ha la testa immersa nel lavoro h24, nonostante l’illusione di una libertà soprattutto teorica.
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