Qualche giorno fa, parlando del buon vecchio Elon Musk e del suo incredibile stunt promozionale a base di lanciafiamme, menzionavo in maniera forse poco chiara un aspetto della biografia del nostro eroe: Musk ha come scopo dichiarato nella vita quello di salvare l’umanità. Analizzando consci di questo fatto le sue imprese, diventano meno spaventose cose come i milioni di dollari bruciati da Tesla ogni giorno, e diventano più comprensibili progetti caratterizzati da un apparente desiderio di fare sempre e comunque qualcosa di straordinario: con un obiettivo ambizioso come quello, occorre prendere decisioni coraggiose. Ma che avrebbe fatto Elon Musk se non avesse avuto voglia di cambiare il mondo?
Facciamo un esempio più generale e meno estremo, dato che non tutti qui siamo geniali miliardari che costruiscono razzi spaziali: tempo fa, proprio su questo blog, introducemmo ipoteticamente l’idea di un negozio di ciambelle biologiche (“Smarturo’s Do’s and Don(ut)’s“), usandolo per fare uno strano discorso sul vilipendio alla bandiera e la reputazione online. Proviamo a ripescare quell’esempio e poniamoci questa domanda: a quali condizioni il gestore del negozio di ciambelle potrà dirsi contento della propria attività?
Una prima risposta, molto banale e materialista, potrebbe essere la seguente: sarà contento se venderà molte ciambelle. Bene, però qualcuno potrebbe porsi il dubbio della redditività, dato che parliamo di un’attività commerciale: il proprietario sarà contento non solo se venderà molte ciambelle, ma anche se la gente quelle ciambelle sarà disposta a pagarle a un prezzo adeguato. Altri ancora potrebbero considerare che, magari essendo un produttore di ciambelle dall’attento spirito civico, il nostro gestore sarà contento sì di incassare, sì di guadagnare, ma anche di farlo senza provocare danno ad altri: vorrà anche che le sue ciambelle non contribuiscano all’epidemia di obesità tra i bambini della città. Ecco che in questo caso avremo un esercente bravo nel suo lavoro (le sue ciambelle vanno a ruba), retribuito adeguatamente (la gente è disposta a pagare per le sue ciambelle), soddisfatto per aver aiutato le altre persone (le sue ciambelle sono gustose ma salutari e non fanno diventare i bambini dei piccoli ippopotami). Un esercente felice? Non necessariamente.
Che succede se un bel giorno il nostro amico si sveglia e si accorge di essersi stufato di cucinare ciambelle? Se di colpo gli passa la passione per l’arte dolciaria, e anzi inizia a odiare la sensazione della farina sulle mani, potrà dirsi una persona contenta? Secondo i giapponesi, la risposta è no: dedicare la nostra vita a fare qualcosa che siamo bravi a fare, per cui ci pagano e che è utile al mondo può non essere sufficiente: se ci manca la passione allora ci sentiremo comunque vuoti nel fare (pur bene) il nostro lavoro.
Come spesso accade nelle culture orientali, la parola chiave è equilibrio: il segreto della felicità sta nel trovare un’attività il cui svolgimento ci permetta di coniugare diversi aspetti, alcuni più materiali e altri meno. Se saremo stati in grado di soddisfare quattro diverse sfere di giudizio nella scelta della nostra occupazione, allora avremo trovato una ragione per alzarci dal letto al mattino, un concetto chiamato dai nipponici Ikigai che è ben riassunto nel diagramma qui sotto.
A pensarci è un concetto quasi banale, e tutti almeno una volta nella vita ci siamo posti delle domande a riguardo. Sono quelle domande che di solito arrivano sotto la doccia, o correndo, o in altri momenti in cui si lasciano andare a briglia sciolta i pensieri. Tuttavia, come accade per molte cose banali, ci vuole qualcuno che ce le sbatta in faccia per farcele accettare.
Lo schema parte da un presupposto: stiamo parlando di vita da adulti, di lavoro, di cose che non sono applicabili né probabilmente comprensibili nella loro interezza da chiunque non debba ancora preoccuparsi di pagare bollette o timbrare cartellini o chiedere finanziamenti. È questo il tipo di contesto necessario per cui abbia senso affrontare questo tipo di considerazioni, considerazioni che possono essere decisamente sconsolanti qualora uno si accorga di non essere abbastanza vicino al centro del bersaglio, centro che è chiaramente un asintoto: difficilmente la vita ci servirà gli ingredienti necessari per raggiungere una situazione di perfetta armonia, dovremo quasi sicuramente effettuare dei sacrifici e rinunciare a qualcosa. Magari lo faremo raccontandoci l’antica storia per cui “è solo per un paio d’anni, poi troverò un altro lavoro“: una storia che per molti si ripete e si ripete e si ripete, e di colpo arriva il giorno della pensione e ti guardi alle spalle e ti accorgi che la vita è passata, e tu non hai mai coronato il tuo vecchio sogno di aprire un negozio di ciambelle. Ecco perché dobbiamo provarci, ecco perché dobbiamo tentare di avvicinarci il più possibile a quella situazione ideale, anche qualora ammettere di essere molto lontani dall’obiettivo ci crei momenti di tristezza. Perché può accadere: accorgersi di essere lontani dall’Ikigai può portare a considerazioni come quella espressa qui dal caro Bojack Horseman, protagonista di una delle serie d’animazione più belle e originali degli ultimi anni.
Suona familiare? Spero di no, tuttavia credo che in molti ci siano passati. Niente paura: quando ci si trova smarriti e privi di uno scopo significa che il primo passo (quello cioè di accorgersi di avere un problema) è stato fatto. Ora è il momento di fare qualcosa per cambiare la situazione. Per raggiungere l’equilibrio ed evitare di trovarci nuovamente desolati come il buon Bojack, dobbiamo porci quattro domande fondamentali:
- Che cosa amo fare? Occorre trovare uno scopo della vita che sia consono alle nostre passioni, alle nostre aspirazioni, ai nostri sogni. Se non mi piacesse comunicare con le persone non potrei occuparmi di marketing, se non mi piacesse la tecnologia non sarei adatto a fare l’Ingegnere. Questa domanda diventa però molto più profonda se per un secondo ci si scorda completamente del mondo del lavoro: se non dovessi lavorare, cosa vorrei fare nella vita? Se non esistesse il problema di pagare la spesa, io ad esempio mi dedicherei probabilmente a scrivere storie.
- In cosa sono bravo? Tra il dire e il fare, com’è noto, c’è di mezzo il mare: occorre considerare non solo le cose che ci appassionano ma anche quelle in cui siamo bravi, altrimenti finiremo con l’essere frustrati dai nostri insuccessi. Quali sono le mie attitudini, le mie competenze, le mie abilità innate o apprese? Mi piacciono gli scacchi ma non ho mai imparato a giocare davvero bene, ne ho solo una conoscenza superficiale: potrei forse essere felice se oggi decidessi di voler fare di colpo il giocatore a tempo pieno? Forse sì, forse no.
- Per cosa posso farmi pagare? E qui ci scontriamo con la dura realtà: il frigorifero non si riempie da solo. Posso essere davvero soddisfatto se la mia attività principale non mi consente indipendenza economica? Molto brutalmente, no: a meno di essere santoni o accattoni o entrambe le cose, ho bisogno di far quadrare i conti a fine mese (e possibilmente di comprarmi una ciambella biologica ogni tanto). Occorre trovare una ragion d’essere che sia in grado di sostenermi economicamente. Se parlare di lavoro mentre si parla di ragion d’essere vi pare brutto, provate a cambiare punto di vista e a ricordarvi le risposte che avete dato alle due domande precedenti: passiamo al lavoro mediamente otto ore al giorno, siamo sicuri di voler fare un lavoro che non ci piace o nel quale non siamo bravi? Io da un lato non lavorerei dove lavoro se non mi pagassero, ma dall’altro non mi farei pagare per fare qualcosa che odio.
- Di cosa ha bisogno il mondo? L’ultima domanda, la più importante, ha forse un che di filosofico e va benissimo così. Occorre infatti domandarci non solo cosa piaccia fare a noi, ma anche cosa serva agli altri: come posso fare a rendere il pianeta un posto migliore? O se vogliamo pensare in piccolo, come posso fare a rendere migliore la vita dei miei cari, a rendere più bella la mia città o più soddisfatti quanti credono in me? Io lavoro da sempre nel settore dell’healthcare: una volta un tizio delle risorse umane di un’azienda del settore, azienda che all’epoca era abbastanza importante ma che poi ha vissuto fortune alterne, mi disse durante un colloquio che un difetto tipico dei giovani era a suo avviso quello di voler per forza cambiare il mondo. Sono ancora soddisfatto, a distanza di anni, della mia scelta di salutare cordialmente e declinare poi ogni loro offerta di lavoro.
È davvero necessario far collimare tutti questi aspetti per essere felici? Probabilmente si può vivere benino anche senza, tuttavia la risposta più difficile da accettare ma più onesta è probabilmente un brutale sì. Se vogliamo davvero essere delle persone centrate, realizzate, affidabili e soddisfatte, non possiamo trascurare questi quattro punti di vista. Allora sì, che potremo alzarci dal letto al mattino e affrontare ogni giorno come se fosse il penultimo: non l’ultimo, cosa che sarebbe poco lungimirante, ma nemmeno il primo. La corsa è iniziata, non ci possiamo fermare ma possiamo senza dubbio decidere la nostra andatura. E possibilmente apprezzare il panorama.
Ora per favore fate partire questa canzone, e andate a riflettere sotto la doccia.