Una delle maggiori sfide che da sempre interessano gli appassionati di arte videoludica (perché di arte in diversi casi si può parlare, dunque facciamolo senza paura di sembrare esagerati) è quella che li vede contrapposti dialetticamente a una classe di detrattori particolarmente agguerrita, quella di chi contesta l’hobby del videogame per il suo essere troppo poco “reale” per essere una cosa buona. Da sempre ciò che non si capisce spaventa, ed è naturale un certo grado di scetticismo verso un’attività che è tutto sommato un modo di liberarsi dalla fisicità da parte di molti esponenti di generazioni cresciute con passatempi appunto più fisici, più tangibili e concreti: quel modo di giocare è troppo diverso dal modo giusto di giocare, quello che fa sbucciare le ginocchia e fa stare all’aria aperta. Niente di strano.
Allo stesso tempo, chiunque come me abbia vissuto un’infanzia/adolescenza bilanciata tra passatempi “tangibili” e passatempi virtuali sa bene che le due attività non sono mai state in contrapposizione: certo, il tempo è una risorsa finita, dunque ipotizzando che un pomeriggio consentisse (al netto di studio e affini) tre ore di tempo libero, era necessario operare dei trade-off. Cerco di catturare il Guardian Force Cactuar o vado a giocare a calcio con gli amici? Esco a fare un giro in bici o provo a sfuggire dalla stazione di polizia di Raccoon City? Riprovo a salvare la principessa Peach o… beh, ci siamo capiti. Dei trade-off, e salvo rari casi il risultato finale era un moderato grado di frequentazione di mondi virtuali.
Poi le cose sono evolute, il grado di diffusione dei videogames è aumentato a dismisura (conquistando segmenti interessanti e mantenendone evidentemente altri, date un’occhiata all’età media dei videogiocatori riportata qui) e si è verificato un fenomeno che ha iniziato a far pendere l’ago della bilancia dalla parte di quelli del “Si stava meglio quando si stava peggio“: la portabilità estrema, l’onnipresenza di smartphone nelle nostre vite, la diffusione di app per casual gamers, hanno reso preponderante l’accesso a hobby virtuali rispetto ai bei vecchi giochi di una volta. Si gioca a poker online, si passeggia solo per cacciare Pokémon, si legge molto su schermo anche se è assodato che la carta non si batte. E a proposito di carta che non si batte, ecco il colpo di scena: dall’oggi al domani ecco che arriva Nintendo, la mia amata Nintendo, con un nuovo prodotto semplice ma rivoluzionario, un nuovo concetto di periferica da videogame chiamato Nintendo Labo.
Cos’è Nintendo Labo? Semplicemente l’anello di congiunzione tra gli hobby tangibili e quelli intangibili. Eccolo qui.
Quanti in questi anni abbiano seguito l’evoluzione delle console della casa di Mario probabilmente non si stupiranno più di tanto: la sperimentazione è da diversi anni la caratteristica distintiva di Nintendo, azienda che più che alle performance tecniche ha negli ultimi tempi badato al fattore divertimento. Il lancio di Wii prima e Switch poi (con in mezzo la parentesi non troppo florida di Wii U) è ascrivibile, a questo punto è chiaro, alla ricerca di un sistema di gioco che trascendesse i paradigmi dettati dalle prime console negli anni ’70 a oggi, un sistema diverso. Oggi Nintendo svela l’ultimo (per ora) step in questa direzione, annunciando un accessorio che ha accresciuto il valore di mercato dell’azienda di 1.4 miliardi di dollari. Le prevendite sono partite e tra qualche mese si vedrà il reale impatto di Labo sul settore videoludico, per ora il commento a caldo è: “Che figata!”
Vendite a parte, a mio modo di vedere il lancio di Nintendo Labo rappresenta una mossa davvero degna di nota, specie perché lancia un messaggio sulla Società in cui viviamo: in un mondo nel quale le interazioni sono sempre più evanescenti, mediate da strati su strati di astrazione, nell’epoca insomma dei visori per la realtà virtuale, c’è chi torna alle proprie origini e sfodera dal cilindro un gioco fatto di cartone. E ci crea sopra un miliardo e mezzo di dollari di valore per gli azionisti. È cartone con un cuore tecnologico, dato che Labo si usa esclusivamente in congiunzione con una console Switch, ma sempre cartone è: un foglio di carta piegato che diventa un robot, una canna da pesca, un pianoforte. Un fantastico origami che ci restituisce il tatto, la fisicità, l’ingombro. Che sia il momento di riprenderci un po’ di mondo reale, e tornare a essere a nostra volta ingombranti e fragili come solo le cose vere sanno essere?
Ora per favore fate partire questa canzone, e provate a diventare ingombranti per un po’.