Come promesso la scorsa volta, ciascun episodio della serie sulle 5P di Mintzberg sarà dedicata a capire una delle possibili interpretazioni del termine “Strategia” proposte da Henry Mintzberg. Inizieremo dal punto di vista più intuitivo: la stragrande maggioranza delle persone, se interrogata sulla definizione di Strategia darà probabilmente come risposta qualcosa a proposito di una sequenza definita a priori di azioni da eseguire per raggiungere un obiettivo, in tempi utili e con le risorse che si hanno a disposizione. Si tratta in altre parole di un piano, una procedura che dovrebbe portarci dal punto A al punto B seguendo un percorso logico, lineare, chiaro.
Andando a curiosare su un dizionario qualsiasi (ad esempio questo), la visione della Strategia come piano emerge chiaramente come prospettiva “di default”: si tratta della definizione che la famigerata casalinga di Voghera (o l’uomo della strada, o l’italiano medio, o chiunque vogliate usare come stereotipo) darebbe se interrogata sul significato del termine. E questo già dovrebbe essere un indizio di come si tratti di una visione solo parziale (altrimenti noi che studiamo a fare?). Un’altra cosa che si può osservare facilmente sul dizionario linkato è come la parola Strategia sia ritenuta in qualche modo afferente all’ambito militare o comunque competitivo: non è assolutamente un caso, dato che la parola stessa deriva etimologicamente dal Greco στρατηγός (strateghós), ovvero generale. Proprio andando a rileggere alcuni dei grandi classici della Strategia militare possiamo accorgerci facilmente di come considerare la Strategia unicamente come sequenza prestabilita di azioni da mettere in pratica presenti alcune criticità.
Prendiamo ad esempio il leggendario samurai, scrittore e all-around badass Miyamoto Musashi, autore dell’imprescindibile Libro dei Cinque Anelli che fin dagli anni ’80 manager di mezzo mondo fingono di aver letto assieme agli scritti di Sun Tzu. Il testo di Musashi parla di molte cose: tecniche di spada, conduzione delle truppe in battaglia, difficoltà di conciliare buddhismo e vita da bushi. Musashi, fondatore del Niten Ichi-ryū (scuola di arti marziali basata sull’utilizzo contemporaneo di due spade, fattore che può contribuire a mettere in prospettiva il tipo di personaggio di cui stiamo parlando) definisce la disciplina di cui tratta nel suo testo usando il termine Heiho (兵法), che in molte edizioni italiane è stato tradotto appunto con Strategia ma che significa in realtà qualcosa che può essere tradotto come le regole della guerra (essendo formato dal kanji che significa soldato e da quello che significa legge o atto).
Perché i traduttori occidentali hanno adattato Heiho in Strategia? Si tratta solo di affinità etimologica o c’è di più? Chiaramente c’è di più, altrimenti non si tratterebbe di un testo che vive da tempo tanta popolarità non solo tra gli appassionati di discipline orientali ma anche in ambito manageriale. Musashi, al netto di affermazioni stupende come “nessuno al mondo capisce l’arte della guerra” (sottintendendo “tranne me“), insegna molti dei precetti che ci si aspettano da un testo del genere e che (nonostante siano passati quasi quattrocento anni) rimangono attuali. Musashi insegna il valore della preparazione, la supremazia della qualità sulla quantità, la necessità di sapersi muovere e di ridurre i movimenti inutili: in sostanza Musashi insegna a elaborare un piano. È sufficiente secondo Musashi elaborare una Strategia intesa come piano? Assolutamente no: come già insegnato dal suo (ideale) predecessore Sun Tsu, Musashi ritiene fondamentale conoscere il proprio avversario e percepire attentamente il mondo esterno. Musashi dice un’altra cosa fenomenale: mai affezionarsi alla propria arma, ovvero fuor di metafora mai innamorarsi del proprio piano. Questo, non troppo inaspettatamente, ci riporta al nostro caro Mintzberg, il quale ha introdotto un concetto cruciale che mette bene in guardia contro i limiti della Strategia vista come puro e semplice piano.
Diciamo chiaramente qualcosa di banale ma che a volte ignoriamo di proposito: le cose raramente vanno come ci piacerebbe andassero. Le previsioni sono intrinsecamente soggette a rischio di non verificarsi, gli oracoli sono ciarlatani, l’oroscopo non funziona e soprattutto il mondo è pieno di nemici che ci mettono i bastoni tra le ruote, distrazioni che ci fanno essere inefficienti, opportunità da cogliere al volo che ci deviano dal percorso che ci eravamo prefissati. In poche parole, salvo casi estremamente rari e semplici, pensare a una Strategia come piano scolpito nella pietra è pericoloso, e sperare di poter seguire questo piano per filo e per segno fino al raggiungimento dei nostri obiettivi è irrealistico. E noi, che da Musashi abbiamo imparato a combattere, vogliamo e dobbiamo essere realistici, e le persone realistiche agiscono seguendo un modello che Mintzberg riassume con lo schema seguente.

Mintzberg ci dice in maniera graficamente chiara quello che intuitivamente tutti sappiamo: a volte lungo il percorso stabilito tra A e B succede qualcosa che ci spinge invece ad arrivare in C. Più precisamente, alla nostra Strategia Deliberata (ovvero le direttive dall’alto per implementare il nostro Piano) si contrappongono circostanze esterne che incoraggiano (o costringono) ad attuare invece una Strategia Emergente, aggiustamenti in corso d’opera che ci portano fuori rotta in maniera più o meno consistente. Questa variazione rispetto al Piano porta all’attuazione di una Strategia Realizzata (il meglio che possiamo fare per rispettare i nostri intenti originari in base alle circostanze reali) e a uno “scarto” rappresentato dalla Strategia Non Realizzata. Il buon stratega non si innamora della propria idea originaria, bensì attua un comportamento come quello schematizzato da Mintzberg, dimostrandosi flessibile e reattivo rispetto ai segnali esterni. Elaborare un Piano non è dunque sufficiente a garantire il conseguimento dei nostri obiettivi, sebbene sia sicuramente necessario (quantomeno quando ci si addentra in territori sconosciuti e complicati): tutti noi adoriamo i Piani ben riusciti, e in diversi casi i Piani riescono alla perfezione. Tuttavia in linea di principio il Piano è in un certo senso come l’Utopia di Eduardo Galeano, un asintoto perfetto cui tendere con determinazione pur consci del fatto che la vita vera probabilmente ci impedirà di raggiungerlo. Galeano sosteneva infatti che l’Utopia fosse come l’orizzonte: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare“.
Ora per favore fate partire questa canzone, e continuate a camminare.
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