Si fa un gran parlare ultimamente di FICO (anche noto come Eataly World), l’ambizioso parco agroalimentare inaugurato a Bologna da Oscar Farinetti: il fondatore e presidente di Eataly ha dato vita, assieme a una cordata di importanti investitori, a un ambizioso progetto che potrebbe aiutare tanto a rilanciare il settore turistico quanto a promuovere in ottica innovativa quello agroalimentare. Si tratta di un’opera che alcuni definiscono faraonica, addirittura accostandola a Disneyland: un parco di dieci ettari costato decine e decine di milioni di euro, che ospita quasi cinquanta punti di ristoro, un centro congressi da mille posti, sei aule didattiche, altrettante giostre educative, un cinema, un teatro, una pista ciclabile (con centinaia di biciclette da noleggiare), ventidue campi coltivati, una tartufaia, oltre duecento animali, negozi, un mercato, aree dedicate allo sport, ai bambini, all’apprendimento e avanti così. Circa 150 aziende di diverse dimensioni sono coinvolte nel progetto, che dovrebbe dare lavoro secondo le stime a oltre tremila persone. Il tutto è sorto in meno di cinque anni, dimostrando che quando si vuole è possibile essere efficienti anche nella nostra malandata Patria.
Naturalmente non mancano le polemiche: c’è chi è preoccupato per la prossimità a un centro di incenerimento rifiuti (cosa che in realtà pare essere ininfluente), chi dall’estero lamenta un fantomatico tradimento della cultura agroalimentare italiana (perché si sa, qui noi dobbiamo vivere e soprattutto morire nel passato), chi invece è perplesso per i costi da affrontare per saltare sul carro di Farinetti (“zero affitto, ma 20% sugli incassi da vendita di prodotto e 30% sugli incassi da ristorazione: un business model che necessita di spalle larghe e che non lascia troppo spazio ai veri artigiani“, come ben riassumono su Gambero Rosso). Io da parte mia sono affascinato da questo progetto, e sebbene riconosca che ci siano alcuni punti critici da affrontare sono deciso a visitare FICO non appena mi sarà possibile. Le mie motivazioni sono essenzialmente queste.
- Eataly non mi piace: non mi ha mai entusiasmato l’azienda fiore all’occhiello dell’imprenditore piemontese (e a quanto pare non sono l’unico a non frequentare abitualmente i loro punti vendita) ma ritengo che privarsi dell’occasione di farsi un’idea in prima persona su un concept come quello di FICO solo per partito preso o per preconcetto sia limitante e insensato. Proprio perché non sono un cliente abituale di Eataly voglio visitare il loro parco: arroccarsi su posizioni granitiche non permette di avere una buona visione di insieme e limita la capacità di cogliere i nuovi trend. Mai smettere di imparare, soprattutto da chi ha idee, esperienze e sensibilità diverse dalle nostre.
- Potrebbe essere la volta buona: la volta buona per dare una scossa non solo al territorio attorno al parco ma volendo al Paese. Questo non solo per l’indotto che si prospetta, che non guasta, ma anche perché in Italia abbiamo evidentemente un problema nello sfruttare le potenzialità del nostro turismo (tra incuria, malaffare e sprechi) e serve qualche approccio nuovo per sopperire a queste lacune: questo modello potrebbe diventare un case study, e non osservarlo da vicino vorrebbe dire snobbare una grande occasione per imparare da chi ha avuto il coraggio di fare qualcosa di azzardato.
- Il concept è interessante: dal mio punto di vista si tratta di una sorta di “mutazione” del concetto di distretto. FICO avvicina in un’area pari a circa undici campi da calcio diverse eccellenze del Paese, consente di fare sinergia a un sacco di imprenditori nostrani ed eroga servizi di formazione e promozione, che possono servire non solo a chi voglia provare a mettersi a sua volta in gioco ma anche a diffondere conoscenza relativa ai nostri tesori enogastronomici. In un mondo di cloni è facile perdere di vista il valore degli originali, ed educare il consumatore affinché apprezzi differenze non immediatamente evidenti può aiutare ad aumentare il valore percepito dei nostri prodotti all’estero.
- Non è l’IKEA agroalimentare: so anch’io che un panettone artigianale a km zero prodotto in tre esemplari l’anno da un antico eremita delle nebbiose pianure padane batte qualsiasi dolce industriale (per quanto premium), tuttavia ritengo che sia meglio intercettare 6 milioni di turisti l’anno e vendere loro un buon panettone industriale italiano anziché aspettare passivamente che inizino a rifornirsi di panettoni made in China via Internet. E posso capire il fatto che l’ottuagenario produttore di tortellini del vicoletto sperduto di Bologna potrebbe aggrottare la fronte sapendo che a un tiro di schioppo dalla sua bottega ancestrale è stato aperto un luogo del genere, però non tutti quelli che passano per FICO decideranno di boicottare in massa le piccole botteghe artigiane, così come non tutti quelli che visitano i centri commerciali evitano di andare dal macellaio di fiducia quando vogliono una fiorentina di quelle giuste. Si tratta di una cosa che per inciso con un centro commerciale c’entra ben poco, è un luogo che vuole promuovere la cultura alimentare italiana, una sorta di prolungamento ideale di Expo Milano (si spera con risultati in ultima analisi migliori) che si concentra sulle eccellenze dei nostri territori. Se non sfruttiamo le nostre eccellenze enogastronomiche che facciamo? Aspettiamo in silenzio che si tiri il sipario sul Paese, vista la scarsa competitività che abbiamo in un sacco di altri settori?
- La Terra non è piatta né immobile: questo va accettato. I tempi cambiano, la società evolve e senza voler dare giudizi di valore sui modelli di business che contraddistinguono i nostri giorni occorre accettare che essi esistono e che non si possono ignorare. Molti dei commenti scettici verso FICO vengono da soggetti reazionari, attaccati a falsi miti di un’età che se mai c’è stata ora non c’è più. Ha senso rimanere attaccati coi denti e con le unghie a una fantomatica “purezza” che forse esiste solo negli occhi di chi ha visto troppi film di Fellini? Perché il fatto di voler svecchiare le cose dovrebbe per forza essere una colpa? L’Italia per fortuna e purtroppo non è (solo) quella che tanti turisti americani amano sognare, e forse questa è l’occasione per mostrare un’immagine differente da quella che ci hanno affibbiato, quella cioè di romantici provincialotti monolingue (quando va bene) che passano le giornate a bere calici di vino e a girare in bicicletta con la coppola in testa nelle stradine di un villaggio sul mare. Forse l’Italia può ancora rivelarsi un player importante, e un modo per dimostrarlo potrebbe essere proprio la capacità di prendere ciò che sappiamo fare bene da generazioni e riproporlo con un nuovo modello.
Poi magari sarà una delusione, magari il tutto si rivelerà un colossale flop: in Italia siamo abituati a scoprire il marcio ad anni di distanza, forse anche qui avremo brutte sorprese e lo scopriremo solo vivendo. Ma per una volta che qualcuno nel Paese si imbarca in un’avventura come questa, per una volta che un imprenditore nostro connazionale si può definire (simpatico o meno che sia) un visionario, cerchiamo di essere ottimisti: se poi FICO tradirà le aspettative, aggiungerò una “R” e da buon friulano mi consolerò con un frico. Magari a km zero.
Ora per favore fate partire questa canzone, e cercate di fare anche voi qualcosa di fico.