“Everyone in the healthcare industry has an idea what it’s like to be a patient. But there is a huge difference between having an idea and actually being a patient.”
Mi torna a volte in mente questa frase, sentita qualche tempo fa ad Amsterdam durante una conferenza su Sales e Marketing nel mondo dell’Healthcare. A pronunciare queste parole fu Paula Ljulj. Paula è una specialista di marketing croata che si occupa di Brand Management per il gruppo Hartmann, una multinazionale del settore con circa due secoli di storia alle spalle. L’intervento di Paula (di cui parlo dopo aver chiesto e gentilmente ricevuto il permesso) verteva essenzialmente sulla storia da lei raccontata in questo bell’articolo, la storia cioè di come a seguito di un controllo al seno si sia improvvisamente trovata a vestire gli scomodi panni della paziente oncologica.
La storia, perdonatemi lo spoiler, è a lieto fine: Paula appare ora come una donna forte e in salute, in grado di tenere incollata l’audience mentre racconta tranquillamente di come abbia sconfitto il cancro (sebbene le emozioni siano proprio lì sotto, pronte a riaffiorare). Paula racconta di aver ricevuto un trattamento che l’ha fatta sentire privilegiata: il medico che l’aveva in cura l’ha fatta sentire una parte attiva nella lotta a quella malattia anziché una vittima delle circostanze. Leggiamo di una prima, terrificante telefonata da parte del medico, di come i suoi sogni, le sue speranze, i suoi piani di colpo abbiano perso significato. Accenna delicatamente a una terapia molto dura da sopportare e al desiderio di sentirsi normali, di non restare passivi, di avere qualcuno che risponda ai nostri dubbi: tutte cose legittime durante un momento difficile. Un lunghissimo momento difficile. Soprattutto, e qui torniamo alla frase d’apertura, Paula ci racconta di come abbia dovuto imparare a essere una paziente. Questa a mio avviso è una skill di potenza impareggiabile, ed è alla base del suo stile di storytelling: il messaggio è notevole perché l’autrice ha assunto il ruolo di autorità emozionale avendo vissuto l’esperienza in prima persona.
Lo storytelling emozionale è secondo gli esperti (tanto di advertising quanto di neuroscienze) il futuro del branding: a me verrebbe da dire piuttosto che è da sempre alla base del branding stesso. Cos’è un brand, infatti, se non il solco tracciato dalle emozioni che siamo in grado di evocare giorno dopo giorno, contatto dopo contatto nella mente del consumatore? Coca-Cola, Barilla, Apple, Lego: ciascuno di questi nomi evoca in noi una serie di valori, in maniera più o meno conscia e più o meno supportata dai fatti. Non ci fanno venire in mente fatti, numeri, statistiche: ci fanno ricordare emozioni positive o negative. Anche negative, sì: quanti tra i vostri contatti Facebook saltano sulla sedia appena sentono la parola Monsanto, magari non sapendo nemmeno esattamente di cosa si occupi quell’azienda?
In alcuni casi, lo storytelling emozionale ci accarezza delicatamente riportandoci all’infanzia, in altri ci colpisce come un cazzotto sulla bocca dello stomaco: entrambi gli effetti possono andare bene purché siano voluti e controllati dallo storyteller, ed entrambi contribuiscono al posizionamento del nostro brand. La differenza tra raccontare una storia ed elencare dei fatti è profonda, talmente profonda che il nostro cervello viene stimolato in aree diverse in base al tipo di contenuto che è chiamato a recepire. Mentre apprendiamo questa storia non è una Brand Manager a parlarci: è una paziente, una come noi o come i nostri cari. Le corde toccate e il punto di vista adottato sono totalmente diversi: l’ascoltatore capisce che quello non è un messaggio precotto, non è la storia fittizia di un personaggio da campagna pubblicitaria, non è l’ennesimo “Be like Bill“. E l’ascoltatore presta attenzione, poiché le aree del suo cervello che vengono stimolate non sono quelle dedicate al nozionismo e alla ragione, sono quelle riservate alle emozioni: leggendo quelle righe o ascoltando quelle parole noi siamo lì con Paula in sala d’attesa, visualizziamo una macchinetta del caffè che accetta solo monete (e in tasca non abbiamo spiccioli) e degenti che vanno avanti e indietro. Sentiamo l’odore di disinfettante nell’aria e una temperatura che è sempre troppo alta o troppo bassa, intuiamo flebo e barelle, linee infusionali, referti via via sempre più incoraggianti, mattine difficili e nottate snervanti, e infine una giornata in cui tutto sta finalmente andando per il meglio. E un nuovo inizio. Paula non si preoccupa di affrontare un argomento che per molti è tabù, si mette in gioco in prima persona, accenna solo marginalmente a quello che fa la sua azienda ma ti mette voglia di andare a vedere di cosa si occupino. E loro si occupano (anche) di migliorare la vita a persone che affrontano esperienze simili.
Quindi dobbiamo tutti diventare pazienti per parlare di Sanità? Dobbiamo mangiare molti cheeseburger per pubblicizzare un fast food? Dobbiamo necessariamente avere la patente per lanciare sul mercato un’auto elettrica? Ovviamente no: il punto a mio avviso non è che si debba per forza provare le cose sulla propria pelle per essere bravi a raccontarle. Il punto è che a volte la vita ti serve limoni e a volte ti serve un carcinoma, e allora ti troverai a doverlo affrontare: c’è chi purtroppo non ha l’occasione di raccontare com’è andata e chi invece può farlo. E poi c’è chi, come Paula, sconfigge il cancro non una ma due volte: la prima volta guarendo e la seconda traendone nuova forza per svolgere ancora meglio il suo lavoro. Per raccontare storie migliori.
Ora per favore fate partire questa canzone, e provate a scrivere di getto un racconto sulla vostra vita. Quel racconto potrebbe stupirvi.