Il mio recente viaggio in Nuova Zelanda è stato viziato da tre fattori che mi hanno impedito di capire a pieno il Paese, o che forse me ne hanno fatto apprezzare solo una determinata sfumatura: è stato un viaggio prevalentemente di lavoro; è durato solo una manciata di giorni; si è svolto in inverno.
Tuttavia, pur senza la libertà di esplorare come avrei voluto, mi sono fatto una prima idea su questo arcipelago verde: è un Paese meraviglioso e tranquillo, che però mi pare venato da una serena malinconia di fondo. La si intravede a Auckland negli occhi dei Māori, spesso annebbiati dall’alcool, gli stessi Māori che una volta erano guerrieri e che oggi recitano la parte dei senzatetto. La si nota anche in cittadini della stessa etnia ma meglio integrati, nei loro sorrisi gentili che quasi stonano sui fisici massicci. La si intuisce nel vapore sulfureo di Rotorua, mentre emerge dai tombini e si spande in sospiri leggeri: un borbottare continuo di fanghi bollenti fa da colonna sonora a questa bella cittadina adagiata su un lago, unito a richiami di animali che non conosco. La si intravede perfino a Hobbiton, nell’ammirare con eguale stupore inganno e realtà: l’inganno sta nelle casette dalla porta circolare costruite (e ricostruite) sul grande appezzamento terreno che ha fatto da set ai film di Peter Jackson; la realtà è rappresentata dalla squadra che quotidianamente ne cura i piccoli orti e i giardini, pieni di fiori veri e ortaggi veri. Nemmeno la finzione è una natura morta qui, in tutto si intuisce un delicato tentativo di coltivare il mondo e allo stesso tempo di mantenerlo com’è o com’era. Un tentativo futile: il mondo va inevitabilmente avanti, per quanto siano stringenti i controlli doganali e per quanto si tenti di imprigionare tradizioni che ormai sembrano ridotte a folklore, roba da turisti come me. L’Haka può essere ammirata pagando un biglietto che comprende anche una cena e una visita guidata: magari un’altra volta.
Questa non è l’Europa pur somigliandole molto, non è l’Australia pur essendole (relativamente) vicina: si tratta di un Paese unico, fatto di vaste pianure e isole e vulcani. Un paese popolato di gente casual e rilassata, da abitanti del Commonwealth eroicamente insediati in mezzo a un mare distante e dominato da semidei polinesiani. I loro simboli (quelli dei semidei) si possono vedere ancora: prevalentemente appaiono sotto forma di souvenir ma a volte, solo a volte, sono ancora esibiti con orgoglio da meravigliosi, autentici discendenti di quei grandi dominatori dei mari che oggi confondiamo con una squadra di rugby.
È a questo che penso mentre a bordo di un bus mezzo vuoto sfreccio lungo una strada interminabile, disegnata sul verde saliscendi inondato di mucche (non viola) che mi separa dall’aeroporto. In cielo sfila un’impressionante parata di nuvole, d’improvviso iniziano a piangerci addosso: presto le attraverserò con noncuranza seduto a bordo di un Airbus, diretto verso l’altra parte del mondo. Diretto verso casa.
Ora per favore fate partire questa canzone, e allontanatevi a bordo di un autobus sotto la pioggia.
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