Il giorno dopo si parte finalmente verso sud: Hilmi, Meri e io. Lasciamo Smirne, ci addentriamo in periferia prima e in aperta campagna poi. Dovremmo impiegarci un paio d’ore ma Hilmi (che è il più anziano della compagnia e in un certo senso il più alto in grado, dunque alcuni gli si rivolgono a volte col titolo di Bey), ignora o fraintende il navigatore e sbaglia strada.
Si tratta di una persona che parla fluentemente quattro o cinque lingue, dunque non posso fare a meno di sospettare che si tratti di un errore volontario, una deviazione pensata per farmi vedere la nazione di cui è innamorato e della quale non finisce mai di parlare. Hilmi è una chimera culturale, un figlio dell’import di manodopera a basso costo attuata dai tedeschi dopo la Guerra per ricostruire le città rase al suolo dalle bombe egli Alleati: cresciuto non lontano da Düsseldorf, Hilmi ha sangue macedone nelle vene e occhi azzurri. Una testa liscia, un fisico massiccio ma non sfatto che tradisce un passato da pallamanista: è un appassionato della storia e della filosofia, un fumatore incallito di sigarette Sobranie e un musulmano molto moderato, nel senso che non gli ho mai visto rifiutare di bere o mangiare nulla che un suo potenziale cliente o capo o sottoposto mostrasse di voler mangiare. Un salesman che casca sempre in piedi, culturalmente camaleontico e profondamente intelligente: è la figura pittoresca di cui parlavo qui.
Si tratta di una deviazione inattesa per me fondamentale: vedo il Paese per come andrebbe visto, al di là della patina imposta in maniera più o meno volontaria dai miei ospiti. Vedo le montagne innevate sullo sfondo, vedo le ampie pianure e le strade a volte dissestate, la terra rossa e gli ulivi nodosi. Vedo da vicino Efeso, dove un tempio sorgeva una delle Sette Meraviglie del Mondo e dove ora giacciono macerie a beneficio dei turisti. Arrivati a una conca a strapiombo su rocce aguzze, ci fermiamo a pranzare in un ristorante pieno di donne minute e anzianissime, dove fucili da caccia stanno appesi alla parete e un focolare spento porta tracce indelebili di cenere: assaggio peperoncini che mi fanno lacrimare selvaggiamente, curioso tra vasi di miele e confettura di ciliegie. Intuisco l’odore che avevano addosso le truppe che assediarono Vienna tanto tempo fa. Baffuti avventori mi scrutano con sospetto: non siamo in una località turistica e io sono diverso, ma non c’è malizia in loro. Pur essendoci addentrati in campagna siamo comunque nella parte ovest della Turchia, quella che apprendo essere la meno radicalizzata. A est, mi assicurano tra un bicchiere di ayran e l’altro, la situazione è diversa e va inasprendosi. Qui, nella pace di questi alberi senza tempo, mi sembra di essere in Grecia o in Puglia (ma guai a dirlo ai greci, e probabilmente guai a dirlo ai pugliesi). Nuovamente mi viene impedito di pagare: non parlando Turco mi è impossibile chiedere alla cameriera di portare il conto a me e non ai miei accompagnatori. Lei l’Inglese non lo capisce o se lo capisce fa finta di niente: ripartiamo.
Iniziano, man mano che ci addentriamo nella provincia di Muğla, dei saliscendi non idilliaci per la digestione. Non ci sono soste fino all’arrivo ché già siamo in ritardo rispetto alla tabella di marcia, non tanto per la deviazione ma per la meravigliosa usanza turca di fare a tavola una cosa che da noi è forse andata perduta: parlare. Mi viene detto (e forse è vero) che il popolo turco è quello che al mondo dedica più tempo ai pasti durante la giornata. Credo sia una diretta conseguenza della loro essenza di venditori: da sempre gli accordi migliori vengono stretti davanti a del cibo, loro si allenano costantemente in questo.
Arriviamo nel tardo pomeriggio a Dalaman: il congresso cui parteciperemo si svolge in un resort interamente occupato da espositori, farmacisti, membri dell’organizzazione e pochi camerieri indaffaratissimi e azzimati. Durante l’alta stagione dev’essere imperdibile qui, siamo in una spa poco distante dal mare. Però è marzo e non è il momento di fare il bagno, dunque entro immediatamente nel ruolo che mi spetta. I giorni seguenti procedono nella routine dei congressi: lunghe attese, ondate di visitatori, buffet sontuosi, piedi dolenti, immancabili cravatte, un flusso bidirezionale di biglietti da visita presto dimenticati. Qui la conversazione e gli interventi sono quasi totalmente in lingua turca, dunque il mio ruolo è più di rappresentanza che altro. Mi accorgo in pratica di essere una bestia esotica: sono l’unico straniero al congresso assieme a una farmacista malese. Sono essenzialmente un poster.
Il congresso è insolitamente lungo, e come da manuale i pranzi e le cene sono una parte importantissima dell’esperienza: se la sbrigano tra turchi, io mi limito a fare la mia parte ovvero sorridere, stringere mani, parlare con il supporto di un traduttore (che per quanto ne so io sta stravolgendo totalmente la value proposition che porto in giro per il mondo come una reliquia preziosa). Di giorno vedo stimati ricercatori affondare marshmallows in una cascata di cioccolato fuso, colleghi riempirsi il piatto fino a renderlo simile a un barcone somalo anziché fare la fila due volte al tavolo della carne grigliata, centinaia di sigarette fumate e spente. La sera osservo dal di fuori questa meravigliosa comunità di seri professionisti lasciarsi andare in karaoke e balli tradizionali, bere cocktail e birre (uomini e donne assieme, a testimonianza di come ci troviamo nella parte emancipata del Paese). Le giornate e le serate alle fiere e ai congressi volano: in questa routine fatta di brochure e poco sonno arriva finalmente il venerdì. Il congresso durerebbe ancora una giornata ma il mio lavoro finisce prima del tempo: le persone che sono venuto a supervisionare sono abili e arruolate, dunque decido di partire un giorno in anticipo. Il mio volo partirà la mattina seguente, mi congedo dai colleghi e amici che hanno condiviso con me questa avventura e mi trasferisco in una specie di pittoresco bed and breakfast più vicino all’aeroporto. Qui, un blackout improvviso mi regala l’emozione di una cena a lume di candela, mentre un inossidabile musicista locale strimpella una bel saz acustico, proponendo musica tradizionale.
Il sabato infine riparto, nuovamente faccio scalo a Istanbul e atterro a Venezia. Recupero l’auto, guido per i soliti 108 chilometri verso casa, mi chiudo la porta blindata alle spalle, tiro il fiato e procrastino l’apertura della valigia all’indomani mattina (poi diventerà l’indomani pomeriggio). Faccio una doccia, accendo la TV per scoprire che nuovi guai ci siano nel mondo: è la sera dell’11 marzo 2017, Recep Erdoğan incoraggia i cittadini olandesi di origine turca a scendere in piazza per protestare contro il governo olandese, reo di aver impedito il comizio di un suo ministro prima dell’imminente riforma costituzionale. A Rotterdam si verificano violenti scontri tra la polizia e i manifestanti. Forse, mi rendo conto, ho visitato quel bellissimo Paese un attimo prima che diventi qualcosa di molto diverso.
Il resto è storia, una storia che stiamo ancora vivendo: Erdoğan ha vinto il suo referendum, le tensioni con diversi stati europei sono aumentate, la Siria continua a essere un mattatoio, il governo di Ankara ha recentemente vietato l’insegnamento del darwinismo nelle scuole. Il mondo sta cambiando, come sempre, e noi con lui. Non so se e quando potrò tornare a percorrere le strade polverose di quella terra mitica: il turismo procede, gli affari procedono, ma ogni giorno riserva nuove sorprese e chissà cosa ci racconterà il telegiornale stasera? A volte bisogna davvero sbagliare strada, ignorare il navigatore e godersi il panorama: quel panorama potrebbe non durare per sempre.
Ora per favore fate partire questa canzone, e allontanatevi sotto il timone del Grande Carro.