Turchia 2017 – Episodio 1: La Città sul Mare

Del mio primo viaggio (e a oggi unico) viaggio in Turchia ricorderò una piovosa serata in riva al mare a Smirne, la cucina eccezionale, la gentilezza dei miei anfitrioni. Soprattutto, ricorderò il lungo viaggio in auto che mi ha portato giù nella provincia di Muğla, a Dalaman, attraversando chilometri e chilometri di un paese tanto grande quanto carico di contraddizioni.

L’occasione è una delle solite: un congresso di farmacisti oncologici. Per la prima volta l’invito mi è arrivato dalla Turchia, una terra che non ho mai visitato e che mi incuriosisce molto. Ne approfitterò per andare prima a trovare un paio di persone a Smirne, dove ha sede il nostro distributore per la Turchia: questo vuol dire dover coprire in qualche modo gli oltre trecento chilometri che separano le due città. La scelta più comoda è probabilmente prendere un aereo, però credo che non sia possibile capire davvero una landa come quella se non la si percorre in maniera più lenta, meno distaccata: attraverseremo dunque il Paese in auto.

Non trovo un volo diretto da Venezia a Smirne, dunque il mio primo impatto con questo Paese coincide con un breve e poco cerimonioso scalo a Istanbul. Purtroppo non ho tempo per visitare quella che a seconda di chi la descrive è la città dei sultani o la città dei gatti: mi limito a bere uno dei numerosi caffè della mia permanenza in un bar dell’aeroporto. Arrivo a Smirne verso sera e a prendermi arriva Burak, un ragazzo giovane che lavora per il nostro partner turco. Il suo inglese non è impeccabile ma si fa comprendere molto bene, dimostra immediatamente due tratti che arriverò ad apprezzare di questo popolo nei giorni seguenti: è molto ospitale e ogni conversazione con lui può essere ricondotta agli affari. Non c’è malizia in questo, è semplicemente un mercante nato: sa come mettere a suo agio la controparte ma non si lascia distrarre dall’ottenimento dell’informazione che gli serve. C’è anche una sincera cordialità in lui: guidando con piede sicuro tra le vie di Smirne mi conduce al ristorante dove incontreremo altri colleghi. Mi guardo attorno ed è un valzer di sfarzo e miseria: Smirne è una città di mare, una città antica che alcuni ritengono essersi sviluppata assieme a Troia. Come tutte le città di mare ha alcune zone raccomandabili e altre meno raccomandabili; come tutte le città antiche ha diverse influenze culturali che si fondono e si mescolano; come tutte le città turche nel 2017 è ricca di profughi siriani ai semafori. Donne, bambini, anziani: tutti elemosinano a non troppi chilometri dalla nazione martoriata dalla guerra dalla quale sono fuggiti. Burak non li degna di uno sguardo, evidentemente abituato alla loro questua.

Raggiungiamo un ristorante in riva al mare e incontriamo Meri, giovane farmacista da poco entrata a far parte della squadra, e il mitico Hilmi, collega e mentore nonché mio frequente compagno di viaggio. Ceniamo leggero a pochi passi dalle onde, alcune navi attraversano lentamente l’orizzonte. Non lasciano che paghi la mia parte di cena, quindi mi accompagnano in hotel. Il clima è mite e piacevole, il sonno arriva presto.

Il mattino dopo Meri viene a prendermi all’Hilton. Prima di tutto dobbiamo visitare un paio di nostri utenti in ospedali della città: Meri si scusa per essere arrivata in ritardo, si raccomanda di fare molta attenzione agli scippatori e mi accompagna a visitare due delle strutture sanitarie più importanti della città. Vedo del buono e del meno buono, vedo ritmi lenti e un traffico congestionato che mi ricordano molte città italiane. Aspettando di ricevere udienza dal direttore della prima farmacia ospedaliera che visitiamo, Meri e io beviamo qualcosa in un piccolo giardino adornato di alberi e di mendicanti. Molte delle persone turche che vedo a Smirne sono belle: hanno un fascino mediorientale ma non troppo, si capisce che è stata ed è una terra di passaggio come la nostra. Hilmi spesso si rivolge a noi, a loro e ad altri parlando di “we mediterraneans“: so bene che abbia più ragione di quanto molti dei miei connazionali vogliano ammettere e me ne rendo conto da minimi dettagli, da impercettibili sfumature nel modo di fare le cose. Subito fuori dalla porta che dal cortile conduce alla farmacia ci sono due donne che fumano: nuvole noncuranti escono dalle loro bocche per entrare nell’atrio d’ingresso.

La mattina procede. A pranzo, Meri mi fa provare cibo tipico della zona: si tratta di quello che definirei una sorta di pizza turca, una pasta molto sottile con sopra pomodoro, peperoncini e una qualche forma di carne sminuzzata. Accompagno il pranzo con l’immancabile ayran, nuovamente non mi è consentito pagare: non mi permetteranno in effetti di toccare il portafogli per un’intera settimana, dal momento che sono loro ospite. Passerò il resto della giornata in ufficio assieme a lei e ad altri colleghi suoi connazionali. Di alcuni afferro i nomi, di altri no: sorrido e annuisco verso ognuno di loro. Le pause caffè sono frequenti e cerimoniose, una signora di una certa età prepara per noi bevande calde e biscotti: apprendo trattarsi di quella che Hilmi definisce “tea lady“, una persona dedicata esclusivamente a prendersi cura degli ospiti. Si ricorderà per sempre del modo in cui prendo il caffè o il tè, e ogni volta che tornerò in quell’ufficio me lo farà trovare come piace a me. Questa almeno è la teoria di Hilmi, che non è noto per essere realista al 100%.

Meri mi legge il futuro usando i fondi del caffè e una app per iPhone, in un curioso amalgama di modernità e misticismo: una persona con una “R” nel nome mi aiuterà a risolvere un cambiamento in modo positivo, apprendo. Sono passati tre mesi e ancora non è successo, non ci sono più le app di una volta.

La tappa a Smirne è destinata a durare poco: ancora una serata in riva al mare, il mattino seguente partiremo verso Dalaman. Dopo cena approfitto per girovagare da solo lungo le vie del porto, scatto qualche foto, mi lascio piovere leggermente addosso da alcune nuvole di passaggio. Smirne è una bella città affacciata sull’Egeo, un importante porto marittimo con una storia vecchia di cinquemila anni: è stata ittita e poi è decaduta sotto i persiani, è stata fatta rinascere da Alessandro Magno, è diventata romana, è crollata per un terremoto devastante. Marco Aurelio l’ha voluta nuovamente in piedi. Poi ci sono stati i bizantini, i genovesi, i cavalieri ospedalieri, i conquistatori ottomani. Non stupisce che la gente qui sia orgogliosa del proprio retaggio: ognuno si aggrappa al pezzo di storia (o di mitologia) che preferisce. Sul lungomare sorgono diversi monumenti dedicati alla gloria della nazione turca: c’è anche una bella statua di Mustafa Atatürk, il padre dei turchi, con accanto un bambino. La gente apparentemente non bada troppo a quella particolare statua, che anzi è un po’ defilata. Solo una donna anziana si ferma a poggiare dei fiori ai suoi piedi: forse non è una persona reale, forse è lo spirito della città a farlo. Forse sono io a immaginare di vederla con la coda dell’occhio, mentre mi dirigo verso la mia sfarzosa camera d’albergo. L’indomani si parte: nella prossima puntata ne parliamo.

Ora per favore fate partire questa canzone, e allontanatevi verso Costantinopoli.

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